Aborto, costrette a emigrare per un diritto Così le donne devono "pagare" la loro scelta

 

espresso
Nonostante si pratichino sempre meno aborti, in tante zone del paese interrompere la gravidanza è un'impresa ardua. In alcune province il servizio non viene offerto e in molte altre ci sono liste d'attesa che obbligano le donne a cercare lontano da casa un posto che le accolga.

Per l'Istat nel 2012 oltre ventimila donne su centomila si sono rivolte a strutture di altre province: di queste il quaranta per cento è dovuta andare fuori regione. Ma il ministero della Salute nella relazione annuale al parlamento minimizza, affermando che gran parte delle donne riesce ad abortire entro le tre settimane dal rilascio del certificato. Che spesso sono settimane di angoscia, alla ricerca di una struttura dove far valere un proprio diritto.

SULLA PELLE DELLE DONNE


Gli obiettori di coscienza rappresentano il punto di attacco del diritto all'interruzione di gravidanza. La loro percentuale, da sempre molto alta in Italia, aveva iniziato una lenta discesa negli anni Duemila. Fino al 2006, quando l'Ordine dei medici approva un nuovo Codice deontologico, che entra nel merito della questione con il plauso delle associazioni pro-life. Gli obiettori aumentano in un anno di oltre il dieci per cento, una crescita proseguita negli anni successivi e in molte regioni ancora in corso.

Le stesse associazioni pro-life hanno poi parlato di "attacco al diritto all'obiezione di coscienza" quando, il 18 maggio del 2014, l'Ordine dei medici ha mandato in soffitta quel testo, sostituendolo con l'attuale Codice deontologico. Che sull'obiezione dice: «Si esprime nell’ambito e nei limiti dell’ordinamento e non esime il medico dagli obblighi e dai doveri inerenti alla relazione di cura nei confronti della donna». Ma occorrerà aspettare per conoscerne gli effetti.

Rimane il fatto che oggi la percentuale di obiettori resta altissima, circa il settanta per cento la media nazionale, con i valori più bassi al Centro-nord e in Lombardia, dove nonostante la «cura Formigoni» il tasso di obiettori è rimasto praticamente invariato negli ultimi venti anni. Mentre in quasi tutte le regioni del Mezzogiorno e nella provincia di Bolzano i valori superano l'ottanta per cento, per raggiungere il novanta per cento circa in Molise e Basilicata. Percentuali che costituiscono un vero e proprio boicottaggio della legge, sebbene per molti ginecologi questa scelta sia dettata da motivazioni più di carriera che etiche . Ma quali sono le ricadute di una astensione così alta?



Nella prima colonna vediamo quante strutture per abitante praticano l'interruzione di gravidanza. A offrire il servizio più capillare è l'Umbria, dove sono il doppio rispetto alla media nazionale. Seguono il Friuli Venezia Giulia e la Provincia di Trento. Mentre Lazio, Campania e Molise sono quelle dove il servizio è più carente.

La seconda colonna ci dice in sostanza quale carico di lavoro si aggiunge a ciascun servizio sanitario regionale per l'afflusso di donne provenienti da altre regioni. Sul dato pesa la proporzione tra residenti e non residenti, che nelle regioni piccole può essere squilibrato. Accade infatti che l'impegno maggiore sia quello della provincia di Trento, dove un quinto del lavoro è dedicato a donne non residenti. Il Molise e la Basilicata sono al limite del paradosso: regioni piccole con una scarsa offerta del servizio e una elevata mobilità sia in entrata che in uscita.

Segnale di una emergenza generalizzata nel Centro-Sud, che provoca un turismo forzato per ottenere il riconoscimento di un diritto. Anche l'Umbria, per via di un alto numero di strutture e una «bassa» percentuale di obiettori, accoglie molte donne da altre regioni: qui costituiscono il 12,8 per cento degli interventi.

Al Lazio va la maglia nera per il carico di lavoro su ciascun ginecologo non obiettore. Lo vediamo con la terza colonna. A fronte di una media nazionale di 1,4 ore settimanali, qui nel 2012 erano il triplo, 4,2, in peggioramento rispetto al 2011. Situazione molto difficile anche al Centro-Sud, dove in molte regioni è circa il doppio della media. Un indicatore che lascia pochi dubbi su quanto la legge in molte regioni sia sostanzialmente disapplicata, scaricando l'onere sui pochi ginecologi determinati a garantire il servizio.

UNA SU CINQUE FA LA VALIGIA

Quante donne sono costrette a rivolgersi ad altre Asl, per l'assenza del servizio di ivg in quella di propria appartenenza è uno degli aspetti che la relazione del ministero non chiarisce veramente. E siccome questa informazione non è disponibile, vediamo con i dati Istat cosa accade nelle province.



L'intensità dl colore ci dice quante donne si spostano verso altre province o regioni per poter interrompere la gravidanza, mentre il grafico mostra il dato regionale, cioè quello della relazione ministeriale.

Nelle province di Isernia, Benevento, Crotone, Carbonia-Iglesias e Fermo, il servizio di fatto non c'è. In trenta province su 110 più di una donna su tre è costretta a spostarsi. In molti casi ad assorbire gran parte di questo flusso è il capoluogo di regione che, disponendo di un maggior numero di ospedali, è l'unico che riesce in qualche modo a fronteggiare le richieste.

Complessivamente, nel 2012, oltre 21 mila donne su centomila hanno dovuto spostarsi verso un'altra provincia. Più di una su cinque cui viene negato il diritto di interrompere una gravidanza non voluta nelle strutture di prossimità. Di queste, 8.824, cioè il quaranta per cento, sono dovute andare un'altra regione. Ma dalla relazione firmata Lorenzin, che non entra nel dato provinciale, tutto ciò non emerge. Anzi si legge che «su base regionale non emergono criticità nei servizi di Ivg». 


Si tratta di una sostanziale disapplicazione della 194 da parte delle regioni, cui la legge del 1974 attribuisce l'onere di garantire il servizio e verificarne l'erogazione, anche mediante la mobilità e le chiamate «a gettone». Mentre invece sono le donne a doversi spostare ( la storia di Sara , andata ad abortire a centinaia di chilometri da casa, ne è un esempio).

I privati poi la fanno da padroni in Puglia, Calabria e Sardegna. Mentre in tutta l'Italia settentrionale solo il 2,5 per cento degli interventi viene effettuato in una clinica convenzionata, la Puglia è al 36,2 per cento, la Sardegna al 32,2 la Campania al 16,4.

RELAZIONE MINISTERIALE, REPETITA NON IUVANT

La relazione del ministero nonostante la sua corposa dote di statistiche nasconde fenomeni che, opportunamente analizzati, raccontano un'altra storia. Che le donne riescono sì ad abortire nella maggior parte dei casi entro un mese, ma spesso al termine di un tormentoso calvario, che rende traumatica una scelta già in sé dura da affrontare.

Il rapporto annuale dovrebbe servire a individuare i punti critici del servizio, invece sembra solo una pratica da sbrigare. Confrontando le relazioni dei diversi anni si nota infatti che il testo è praticamente lo stesso, replicato quasi identico di anno in anno. Persino il testo a firma Lorenzin è in buona parte uguale a quello del predecessore Balduzzi, conclusioni comprese. E a volte nel copiare non hanno neanche aggiornato i dati.

Proprio la pagina che descrive le carenze dei servizi regionali, per esempio, è tutta una copia. Nell' ultima relazione si legge: «L'esempio della Basilicata è paradigmatico: nel 2012 presenta un flusso in entrata pari al 13.6% (83 ivg) ma ha anche un ben più consistente flusso in uscita (297 ivg)»: la frase, il capoverso, l'intera pagina, vengono replicati quasi identici da oltre dieci anni. E quel flusso in uscita dalla Basilicata, nel 2012 non era di 297, ma 276, mentre 297 è il valore della relazione precedente che nel copia-incolla nessuno ha corretto. Tanto chi volete che la legga?

Si ringrazia Pietro Gentini di Ecoh Media, Tableau Partner certificato
Si lei vorrei un aborto sicuro, prego andare a www.womenonweb.org
 
Via Espresso República, at http://espresso.repubblica.it/inchieste/2015/04/13/news/aborto-costrette-a-emigrare-per-un-diritto-cosi-le-donne-devono-pagare-la-loro-scelta-1.207935